Accumulare il deserto si pone come installazione dialogante, come – si sarebbe detto negli anni ‘60/70 – ‘opera aperta’. Chi fruisce è chiamato a percorrere sentieri diversi, calpestando la personale rivisitazione che Costanzo fa del pavimento ricoprendolo con ovatta sintetica, per trovarsi davanti svariati frammenti-oggetto realizzati in ceramica e con materiali extra artistici, come reti industriali e materie artificiali diverse.
Lorenzo Madaro,* autore del saggio in catalogo, interpreta l’operazione di Costanzo da cui si estrapola un estratto: «Accumulare il deserto è, anzitutto, uno spazio di investigazione attorno alle radici proprie della scultura e delle sue specifiche declinazioni di senso, talvolta anche imprevedibili, in grado di stabilire un rapporto immersivo tra spettatori e opere, tra il passo di chi osserva e la dimensione plastica della scultura. Una scultura, quella di Alessandro Costanzo, che si concentra anzitutto verso un’indagine profonda dei confini stessi del linguaggio, nei suoi aspetti materici ma anche di peso specifico e del suo posizionamento nello spazio. Perciò l’artista verifica diverse tecniche, orientandosi poi su un display espositivo – un ambiente il cui pavimento è stato cosparso di strati di ovatta – in grado di avvolgere le sue sculture in una sospensione sensuale. Affiorano così strutture ceramiche che alludono a una dimensione ancestrale, quella delle luminarie di un sud possibile, in cui il folclore fa i conti con il quotidiano e la dimensione della festa si confronta con quella intima e domestica. All’immaginario delle luminarie – provenienti idealmente da quegli apparati effimeri che nel Seicento, anche in questa terra, mettevano in scena sogni e conflitti –, si rifanno le ceramiche selezionate dall’artista per questa sua mostra personale; insieme ad altre opere recenti che mettono in scena, con un rigore di ascendenza minimalista, la sua concentrazione verso una scultura che perlustra i propri perimetri, i rapporti tra elementi morbidi e impenetrabili, senza mai perdere di vista un percorso che non è mai narrativo, ma sempre concentrato sulla ricostruzione dei perimetri stessi della dimensione del fare.»